L’Attività di ricerca è volta:
- all’ampliamento delle conoscenze relative al patrimonio naturalistico, paleontologico e preistorico regionale (ed anche extraregionale),
- al recupero delle testimonianze minacciate di dispersione e all’incremento delle collezioni.
Si sviluppa sia in relazione alle collezioni conservate in Museo sia come attività di ricerca specifica sul territorio, coinvolgendo tutti i settori disciplinari del Museo. In molte di queste attività il Museo collabora con Università ed altre Istituzioni Scientifiche sia italiane che straniere.
L’echinococcosi alveolare e le infezioni da Hantavirus sono malattie zoonotiche che costituiscono una seria minaccia per la salute pubblica in Europa. Queste patologie sono associate a piccoli roditori selvatici, tra cui i topi selvatici, l'arvicola rossastra e l'arvicola acquatica.
Lo studio, promosso e coordinato dall'Istituto Zooprofilattico delle Venezie, si propone di esaminare le interazioni tra le popolazioni di roditori e la presenza di E. multilocularis e Hantavirus, tenendo conto dei fattori ambientali che influenzano le loro dinamiche. I dati raccolti contribuiranno a valutare il rischio di infezione umana e a identificare barriere ecologiche significative per i roditori e i patogeni ad essi associati. La comprensione di questi fenomeni sarà sempre più cruciale in un contesto di cambiamenti climatici e di trasformazioni nell'uso del territorio nelle aree alpine. Il Museo Friulano di Storia Naturale partecipa attivamente al progetto, coordinando le fasi di ricerca sul campo e approfondendo gli aspetti ecologici delle specie in esame.
Il progetto si distingue per il suo approccio interdisciplinare, fondamentale per studiare specie comuni ma poco conosciute come i roditori, e rappresenta un’applicazione del modello One Health, che dovrebbe orientare le future strategie per l'analisi e la mitigazione dei rischi sanitari.
Il Museo ha presentato con la Comunità di Montagna della Carnia (LP), la Comunità di Montagna del Canal del Ferro - Val Canale e il Geopark Karnische Alpen di Dellach una richiesta di finanziamento a valere sul CLLD HEurOpen - AZIONE 3 - PROGETTI MEDI, con un progetto volto a valorizzare le Alpi Carniche, sui due versanti italiano e austriaco, dando risalto a un aspetto del patrimonio geologico e preistorico dell’area poco conosciuto e con grande potenzialità anche turistica ovvero le risorse minerarie e le miniere non solo prese in esame in quanto siti geologici, ma anche in quanto siti storici, testimoni del rapporto uomo-territorio. Il suddetto progetto, denominato Tesori della Terra (TesTerra), è stato approvato dal Comitato di selezione nella riunione dell’11.03.2020 e verificato dall’Autorità di Gestione con esito positivo il 10.06.2020. Nell’ambito del CLLD TesTerra al Museo compete, tra l’altro, la partecipazione alla ricerca sui siti minerari e lo studio mineralogico delle loro caratteristiche, nonché l’esame di una ventina tra i più antichi reperti preistorici metallici per verificare l’uso delle materie prime locali da parte dell’Uomo già nella Preistoria, in particolare nelle prime età dei Metalli.
Il Museo nel corso degli anni ha svolto indagini stratigrafiche nelle Valli del Natisone e dal 2019 è impegnato nel progetto “Analytic”, acronimo per “Archeology aNd pALeontologY in easTern frIuli Caves / Archeologia e Paleontologia delle grotte del Friuli orientale”, di cui la mostra “Antichi abitatori delle grotte in Friuli” e il suo catalogo sono uno degli esiti. I primi interventi del progetto hanno riguardato la ricerca sul terreno, ovvero la mappatura e il rilievo delle cavità del Friuli orientale, in collaborazione con il Circolo Speleologico e Idrologico Friulano. Il programma interdisciplinare sta proseguendo con lo studio delle tracce dell’utilizzo antropico delle grotte in una prospettiva diacronica, che comprende parte del Pleistocene e buona parte dell’Olocene.
Il progetto “Analytic” ha potuto contribuire con la propria serie di dati per il settore friulano alProgetto CRIGA- Catasto Ragionato Informatico delle Grotte Archeologiche, nato alla fine degli anni Novanta all’interno del gruppo di lavoro dell’Università di Trieste.
Il Piano Paesaggistico Regionale (approvato con DGR 771-2018) ha lo scopo di integrare la tutela e la valorizzazione del paesaggio nei processi di trasformazione territoriale, anche come leva significativa per la competitività dell’economia regionale. Il Museo Friulano di Storia Naturale, in collaborazione con altri (Regione FVG, UNIUD, UTI Carnia, ERPAC) e in co-pianificazione con il MiBACT, ha contribuito alle linee guida per la progettazione della Rete Ecologica territoriale. Per rete ecologica si intende un sistema di aree naturali o semi-naturali la cui funzione è salvaguardare la biodiversità del territorio, creando spazi idonei per la presenza delle specie e per aumentarne la capacità di spostamento e di contatto tra popolazioni. La rete ecologica è definita come un sistema interconnesso di habitat naturali e seminaturali che permeano il paesaggio e consentono di mantenere le condizioni indispensabili per la salvaguardia delle popolazioni di specie animali e vegetali potenzialmente minacciate dall’attività umana. In termini generali, la rete ecologica ha un carattere multi-scalare e specie-specifico, ossia gli elementi che la costituiscono assumono caratteristiche funzionali diverse se letti a scala regionale o a scala locale e essa può variare a seconda delle specie per le quali viene individuata. Il lavoro ha previsto una fase di studio pilota in alcune aree regionali attraverso un metodo articolato in due fasi: dapprima l’identificazione dei tracciati connettivi potenziali attraverso l’analisi funzionale del territorio, anche mediante l’uso di software specifici, e successivamente la scelta da parte dell’ente territoriale dei nodi e corridoi da salvaguardare, da rafforzare o da progettare per garantire la connettività ecologica in sede locale. Nella realtà gli elementi della Rete Ecologica Locale sono rappresentati da singoli habitat, da insiemi di habitat naturali, o da mosaici di paesaggio più o meno estesi dove aree urbanizzate, aree coltivate ed elementi naturali (siepi, filari di alberi, prati, boschi residuali) si susseguono con diversa densità. Si tratta quindi di individuare ambiti di potenziale connessione ecologica e ambientale alla scala locale, contribuendo all’obiettivo generale di uno sviluppo durevole e compatibile.
Attività svolta nell’ambito dell’accordo di collaborazione con la Regione Friuli Venezia Giulia per lo studio, monitoraggio e divulgazione ai fini della prevenzione e contrasto alla diffusione di specie vegetali neofite invasive potenzialmente invasive e di rilevanza unionale (2016). Il problema dell’invasione di specie neofite (o aliene) è ormai divenuto straordinariamente attuale, tant’è che a livello europeo è stato recentemente pubblicato un regolamento (REGOLAMENTO UE N. 1143/2014) che ne inquadra gli aspetti legati al controllo della loro diffusione e alle strategie per evitare ulteriori ingressi nei Paesi dell’Unione. Una specie si definisce esotica quando si trova in un territorio differente dalla sua naturale area di distribuzione, ovvero proviene da un’altra area geografica. Le specie si possono spostare anche naturalmente, ma nel caso delle neofite l’introduzione in un territorio dipende sempre dall’uomo e può essere volontaria, come nel caso di specie coltivate a scopo ornamentale o alimentare, oppure accidentale, nel caso in cui queste vengano trasportate attraverso i traffici commerciali o, in generale qualsiasi spostamento di uomini e mezzi da un Paese all’altro. A questo proposito, le vie di comunicazione principali, come linee ferroviarie, autostrade, ecc. svolgono un ruolo chiave nella diffusione di queste piante. Quando una specie esotica giunge in un nuovo territorio, o vi si trova già coltivata in parchi, giardini o vivai, potrebbe incontrare le condizioni climatiche idonee per potersi diffondere autonomamente. In certi casi queste entità riescono a diffondersi così tanto da diventare invasive, con ripercussioni negative sulla biodiversità, sulla percezione del paesaggio e sulla sfera socio-economica. Molto spesso si tratta di specie pioniere e ruderali: ecco perché il degrado dei sistemi naturali ne favorisce l’ingresso e la diffusione. I problemi arrecati dalle specie neofite, soprattutto se invasive, sono molteplici, e vanno dall’inquinamento biologico degli ecosistemi autoctoni, alla compromissione dei sistemi agricoli, ai danni alla salute umana. Più in generale si può affermare che le invasioni biologiche determinano effetti negativi sui servizi ecosistemici, definiti come l’insieme delle componenti dell’ecosistema, i loro processi e le loro funzioni (Millennium Ecosystem Assessment, 2005). È evidente che sono necessarie misure idonee, da parte delle Amministrazioni, per poter limitare il più possibile il fenomeno e scongiurare un eventuale e futuro peggioramento della situazione. Queste azioni dovrebbero basarsi sulla conoscenza dell’entità del fenomeno e sulla corretta interpretazione dello stesso in funzione della differente destinazione d’uso del territorio. In questo contesto si inserisce la ricerca che il Museo Friulano di Storia Naturale ha condotto, in collaborazione con la Regione Friuli Venezia Giulia, che ha avuto come obiettivo principale proprio l’acquisizione di criteri per la gestione territoriale volti al contenimento della diffusione delle specie invasive. In particolare gli obiettivi specifici sono stati:
1 - aggiornamento della check-list delle specie vegetali neofite del Friuli Venezia Giulia:
2 - Elaborazione di un modello di relazione fra la diffusione delle specie aliene invasive e le dinamiche dell’uso del suolo su scala regionale:
3 - Proposte di alcune linee guida volte a prevenire e/o contenere l’invasione di specie aliene.
La fauna acquatica della Val Uccea è nel complesso poco nota ed i pochi dati disponibili si riferiscono ad invertebrati macrobentonici e meiofauna delle sorgenti, tra le quali la stessa sorgente dell’Uccea. La fauna interstiziale iporreica, che si trova nei sedimenti accumulati nel letto del fiume era sinora del tutto sconosciuta. La presente ricerca è stata rivolta a colmare tale vuoto, anche in relazione all’importanza ecologica di questa componente che agisce (a) da zona rifugio delle specie di superficie nei periodi di crisi idrica, (b) da zona di sviluppo dei primi stati larvali dei macroinvertebrati bentonici, e (c) come habitat principale o secondario si specie della meiofauna (dimensioni in genere inferiori al mm) che possono anche esserne esclusive (stigobi freatobionti). Sono state individuate 8 diverse stazioni lungo il corso del Torrente Uccea, dove sono stati effettuati campionamenti di macroinvertebrati bentonici e raccolte di fauna interstiziale iporreica mediante diverse metodologie. Da un punto di vista faunistico, i risultati di maggior interesse hanno riguardato la componente stigobia, più ricca in prossimità delle sorgenti ed all’uscita della forra. Merita segnalare il rinvenimento di crostacei sincaridi del genere Bathynella, una assoluta novità per la fauna dell’Uccea, o altre emergenze tra i crostacei copepodi. Ricche sono state le raccolte di macrozoobenthos che è stato smistato a livello di Ordine e attualmente è in corso di determinazione specifica da parte di specialisti. Le raccolte di Efemerotteri e Plecotteri, opportunamente integrate con dati pregressi, editi e non, ha consentito di stilare una checklist preliminare, in fase di implementazione.
In base alla Legge Regionale 42 del 1996, i biotopi rappresentano piccole aree di interesse naturalistico, tutelate a livello locale, dove idonee e compatibili attività antropiche possono coesistere con la conservazione degli habitat. Molti biotopi sono stati istituiti successivamente all’entrata in vigore della legge, venendo incontro alle proposte di rappresentanti del mondo della ricerca, enti locali e associazioni naturalistiche. In aggiunta a ciò molti biotopi ricadono integralmente o parzialmente nell’ambito di aree d’interesse europeo ai sensi della Direttiva 92/43 CEE “Habitat”, (ZPS, ZSC, ad es. Palude Fraghis, Torbiera di Sequals, Torbiera di Casasola, Risorgive di Virco e di Flambro e altri ancora), rimarcando la loro importanza. >La maggior parte dei biotopi che non sono interessati da siti di interesse comunitario, hanno generalmente esigue dimensioni e, nonostante spesso ospitino lembi di habitat di grande interesse e/o specie rare ed endemiche, sono dotati di pochi strumenti di tutela. Il progetto per uno studio degli habitat e loro restituzione cartografica a una scala di dettaglio (1:5000) nasce dalla presa d’atto che queste piccole aree protette non sono finora state oggetto di ricerche mirate, tranne nei casi in cui i loro confini si sovrappongono in parte con quelli dei SIC-ZSC, per i quali sono stati prodotti i Piani di Gestione, oppure nei pochi casi in cui siano stati interessati da analisi nell’ambito di specifici Progetti Life. Per quanto riguarda l’inquadramento della vegetazione, si è adottato un livello fitosociologico che può essere facilmente fatto corrispondere con l’habitat Natura 2000 e quello riportato a livello Regionale nel Manuale degli habitat. Il progetto si è concluso con la pubblicazione del volume monografico edito dal Museo “I Biotopi del Friuli Venezia Giulia. Un mosaico di biodiversità”.
Il progetto, finanziato dal programma di cooperazione territoriale europea Interreg V Italia-Austria 2014-2020, prevede la creazione di un Geoparco transfrontaliero per valorizzare il patrimonio geologico ed elaborare strategie di sviluppo sostenibile dell’area, rafforzando la consapevolezza del suo valore, favorendo l’equilibrio tra crescita e buona gestione dell’ambiente, promuovendo la cultura scientifica, incrementando l’offerta turistica del territorio coinvolto.
Partner di progetto:
• Comune di Udine – Museo Friulano di Storia Naturale
• UTI della Carnia
• UTI del Canal del Ferro-Val Canale
• Geopark Karnische Alpen
• Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia – Servizio Geologico
• Provincia di Bolzano – Museo di Scienze Naturali dell’Alto Adige
Maggiori informazioni sull’iniziativa sono presenti nelsito dedicato.
Indagini di superficie svolte da alcuni appassionati negli anni Novanta dello scorso secolo nell’alveo del Torrente Torre hanno frequentemente condotto al ritrovamento di tracce di antropizzazione riferibili alla Preistoria e Protostoria. Si tratta di zone di affioramento di reperti litici e ceramici, in qualche caso faunistici, portati in luce dalle piene del Torrente. Nel 2007 il personale del Museo ha iniziato un progetto di georeferenziazione dei siti i cui materiali sono custoditi presso il proprio deposito, al fine di conservare un dato univoco sulla loro posizione; nel corso di questo progetto sono state effettuate alcune verifiche presso l’alveo del Torre che hanno permesso di raccogliere le coordinate geografiche di sei località. La rilevanza scientifica di questi ritrovamenti, che testimoniano alcuni momenti della Preistoria che in Provincia di Udine hanno ancora bisogno di essere dettagliati, e il rischio a cui queste aree sono costantemente sottoposte, hanno suggerito l’avvio di indagini stratigrafiche più approfondite nelle aree di affioramento già note e in quelle che saranno messe in luce dagli eventi naturali. Le ricerche a Nogaredo al Torre iniziarono nel 2015, l’area oggetto delle ricerche, già da una prima osservazione, si presentava caratterizzata da tre distinte zone antropizzate che furono indagate in quell’anno, mettendo in luce una struttura pozzetto ed una vasta area antropizzata. I materiali raccolti sono attribuibili al Neolitico antico, ma provengono anche elementi che documentano la frequentazione nel III millennio a.C. una fase cronologica ancora poco conosciuta in regione e che qui sembra fornire una delle poche attestazioni italiane dello stile di Cetina, diffusosi principalmente nell’Adriatico orientale. Proseguono i sopralluoghi nell’area sottoposta a numerose variazioni dovute alle ondate di piena del Torrente.
Con i termini “piccoli mammiferi” o “micromammiferi” si indica un raggruppamento di animali, tendenzialmente di dimensioni piccole o medio-piccole, privo di valore sistematico. Rientrano infatti in questa categoria diverse specie animali, che afferiscono agli ordini Rodentia, Soricomorpha, Erinaceomorpha. I piccoli mammiferi giocano un importantissimo ruolo all’interno dell’ecosistema, grazie all’attività di scavo, creando una vera e propria rete di gallerie sotterranee, utilizzata poi da svariate altre specie animali (anfibi, rettili, invertebrati). I roditori poi possono favorire la dispersione dei semi, sotterrandoli e accumulandoli all’interno di nascondigli, e dei funghi. Costituiscono infine un anello importantissimo di molte catene trofiche, potendo rappresentare per alcune specie di vertebrati una risorsa fondamentale. Ultimo aspetto, non certo per importanza, è che sono un gruppo poco conosciuto, in particolare a livello distributivo. Per questo motivo è stato intrapreso con il Parco Naturale Regionale Prealpi Giulie un progetto di ricerca pluriennale mirato alla conoscenza di questi animali, da un punto di vista ecologico e distributivo. Il progetto è sfociato in un database georiferito con i dati di presenza delle specie, e con un volume scientifico-divulgativo edito dal Parco Prealpi Giulie in collaborazione con il Museo.
Nel territorio amministrato dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia sembrano essere presenti una trentina di specie di pipistrelli, tutte particolarmente tutelate a livello europeo e inserite in vari allegati della Direttiva Habitat 92/43 CEE. La necessità di tutelare questi animali deriva dalle precarie condizioni di conservazione in cui versano molte specie, sicuramente tra le più sensibili alle modificazioni ambientali causate dall’uomo. Essi sono integralmente tutelati dalla Legge Italiana (art. 18 della L. 349/1986; art. 2 della L. N. 157/1992) e da diverse Convenzioni internazionali ratificate anche in Italia (dagli all. II e III della Convenzione di Berna, resa esecutiva in Italia con la L. 503/1981; dall’all. II della Convenzione di Bonn, resa esecutiva con la L. 42/1983 e dal conseguente Accordo sulla Tutela dei Pipistrelli Europei individuato dall’acronimo EUROBATS; dall’all. B e D del D.P.R. 357/1997 relativo all’applicazione della Direttiva Habitat 92/43 CEE). Nonostante siano state recentemente pubblicate alcune discrete evidenze di tendenza all’aumento di questi animali in diverse zone d’Europa, è bene prudenzialmente continuare a considerare i chirotteri come specie per lo più in gravissimo pericolo. Nel territorio della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia i pipistrelli sono però ancora poco conosciuti, pertanto l’Amministrazione della Regione Friuli Venezia Giulia ha incaricato il Museo Friulano di Storia Naturale di realizzare un monitoraggio su questo delicato gruppo animale, esteso a tutto il territorio della regione Friuli Venezia Giulia, intitolato “I Chirotteri protetti dalla Direttiva Habitat 92/43 CEE nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. Monitoraggi 2013-2014”, le cui attività sono state estese fino al 2015. Alla conclusione dell’incarico il monitoraggio e la raccolta di dati sono comunque continuati e stanno producendo notevoli risultati, fondamentali soprattutto a fini di conservazione e gestione territoriale. Le attività sono state principalmente dirette alla verifica dei siti di aggregazione riproduttiva e letargale, ma sono stati contemporaneamente utilizzati sofisticati sistemi di cattura e verifiche bio-acustiche sia per aumentare i dati a disposizione, sia per comprendere meglio il quadro complessivo, raccordandolo alle verifiche occasionali dovute alla spontanea collaborazione di cittadini, enti pubblici e privati.
Programma per la cooperazione transfrontaliera Interreg Italia-Slovenia 2007-2013
WP2-Progettazione di una metodologia uniformata di monitoraggio e di analisi dell’impatto dei cambiamenti climatici sulla biodiversità (2011-2012)
Lo studio ha avuto come obiettivo principale l’elaborazione di un protocollo per la valutazione e il monitoraggio, sia a breve che a medio-lungo termine, degli impatti del cambiamento climatico sulle componenti vegetali e su alcune componenti faunistiche degli ecosistemi terrestri e, ove possibile, anche sulle loro potenziali interazioni con componenti particolarmente sensibili della componente abiotica (in particolare della criosfera) nel territorio Friulano, nell’ambito del Progetto Interreg Climaparks, in particolare per quanto riguarda il Parco Regionale delle Dolomiti Friulane ed il Parco Regionale delle Prealpi Giulie. Per un efficace studio dei cambiamenti climatici è risultato opportuno selezionare ecosistemi semplici sia da un punto di vista strutturale che composizionale, in contesti ambientali nei quali fossero ridotti al minimo gli elementi di variabilità non direttamente connessi ai processi analizzati. Le componenti più sensibili dei sistemi ambientali montani sono la vegetazione, la fauna e, per quanto riguarda le componenti abiotiche, i ghiacciai e le aree con permafrost, in quanto strettamente dipendenti dal clima e dal bilancio energetico della superficie. Considerando che non vi è assoluta certezza relativamente alla scala spaziale e temporale con cui si manifesteranno gli effetti del cambiamento climatico, sono state pianificate attività di monitoraggio multiple, considerando aspetti e processi integrabili tra loro, sia a livello di singole specie che di comunità, sia alla scala di singoli plot che di aree più estese.
Sono state adottate le seguenti metodologie:
1) Monitoraggio di singole comunità vegetali nell’ambito di Plot permanenti;
2) Elaborazione di una carta fitosociologia della vegetazione che possa costituire un punto di riferimento per il monitoraggio a medio-lungo termine (15-20 anni) delle potenziali variazioni di distribuzione spaziale ed areale e della composizione floristica delle comunità vegetali;
3) Eventuale analisi della fenologia di specie vegetali target (nell’ambito dei plot selezionati al punto 1);
4) Monitoraggio dell’uso del suolo e dei suoi eventuali cambiamenti;
5) Approccio per gradienti altitudinali con la selezione di orizzonti altitudinali differenti, al di sopra del limite del bosco;
6) Approccio per ecosistemi con elevato potenziale grado di sensibilità, come ad esempio praterie d’altitudine e vallette nivali;
7) Eventuale monitoraggio di processi di colonizzazione e dinamismo in siti dove la componente vegetale sia strettamente associata a forme glaciali e/o periglaciali.
Per ciò che riguarda la componente faunistica, il protocollo ha previsto il monitoraggio delle comunità di alcuni taxa faunistici scelti per la loro comprovata idoneità come bioindicatori. In particolare è previsto il monitoraggio di Lepidotteri, Coleotteri Carabidi e Ragni tra gli invertebrati terrestri, di diversi gruppi di macroinvertebrati acquatici e degli Uccelli nidificanti tra i vertebrati. La struttura del monitoraggio prevede, per gli invertebrati terrestri, l’individuazione delle stazioni di campionamento in plot permanenti disposti ogni 100 m di dislivello secondo transetti altitudinali che vanno dal piano subalpino a quello nivale, possibilmente coincidenti con quelli previsti per il monitoraggio delle comunità vegetali. Per i macroinvertebrati bentonici di acque correnti dovranno essere selezionati tre bacini idrografici in ciascun Parco: è previsto il campionamento del tratto sorgentizio (crenal) ed epiritrale nelle testate del rio o torrente principale. Lo studio delle comunità di uccelli nidificanti, infine, dovrà venire effettuato attraverso la tecnica del conteggio delle presenze in punti di ascolto collocati nei medesimi plot previsti per gli invertebrati terrestri.
L’Ente Parco delle Dolomiti Friulane ha incaricato il Museo Friulano di Storia Naturale di effettuare un censimento della flora del territorio di sua competenza. Così è stata firmata una convenzione fra i due Enti per lo studio preliminare della flora in alcune aree campione sulla base della loro rappresentatività nel territorio del Parco e fruibilità a fini turistici. Tali aree sono state suddivise in un reticolo di 6.5 x 5.5 km corrispondenti ai quadranti della Cartografia Floristica Centroeuropea (o MTB, Ehrendorfer & Hamann, 1965), per poter ottenere al termine della ricerca un quadro quanto più esauriente della distribuzione della flora del Parco, con particolare riferimento alle specie endemiche, quelle inserite negli allegati delle direttive comunitarie (con particolare riferimento alla 43/92/CEE), quelle inserite nelle liste rosse nazionali e regionali e/o che beneficiano di qualche norma di tutela. In questa fase, dunque, la suddivisione in quadranti ha avuto lo scopo di impostare un progetto di cartografia floristica e tentare di delineare la distribuzione delle sole specie target. Nel complesso il bilancio delle attività è stato positivo con un incremento considerevole delle segnalazioni floristiche e dei dati georiferiti e con il ritrovamento di alcune entità interessanti, tra le quali alcune mai segnalate in Friuli Venezia Giulia (Poa chaixi, Helictotricon parlatorei). La raccolta di taxa critici (Alchemilla, Hieracium, Rubus, Knautia) è stata soddisfacente. Anche dal punto di vista vegetazionale sono emersi diversi aspetti interessanti e si è potuto chiarire meglio la diversa articolazione delle fitocenosi nel territorio del Parco, soprattutto in relazione al loro significato a livello di habitat Natura 2000. Sono stati individuati alcuni siti di particolare valore naturalistico (M. Borgà-prati di Salta, zone umide del Vajont, prati delle Centenere) sia per ricchezza di specie che per il loro significato biogeografico. Al termine della ricerca è stato pubblicato un volume edito dal Parco dal titolo “La flora del Parco: invito alla scoperta del paesaggio vegetale nel Parco Naturale Dolomiti Friulane”.
Il Museo ha sviluppato il “Progetto Rogge di Udine” con l’obiettivo di studiare il territorio urbano dal punto di vista della qualità dell’ambiente, con particolare riguardo agli aspetti floristici e faunistici, senza però tralasciare quelli storici, che rappresentano il contesto entro il quale si sono evolute le rogge da quando sono state create per far fronte al bisogno d’acqua della città di Udine. Lo studio della componente naturalistica - in particolare - rappresenta una fase imprescindibile di un progetto di conservazione della biodiversità e di sviluppo sostenibile. In una prospettiva urbanistica, quindi, questa ricerca costituisce un utile strumento di pianificazione. La conservazione degli habitat naturali o semi-naturali, anche in ambito urbano, è infatti presupposto indispensabile nel quale la stessa biodiversità viene concepita come indicatore della correttezza della gestione del territorio nel quadro di uno sviluppo sostenibile. Il “Progetto Rogge di Udine” è stato quindi incentrato sullo studio della qualità bio-ecologica dei corsi d’acqua cittadini, attraverso approfondimenti sulle comunità vegetali e animali finalizzati alla valutazione dell’eventuale grado di disturbo e alla ricerca di soluzioni per un possibile ripristino e una gestione consapevole di questi ambienti.
L’area alpina e prealpina delle Giulie occidentali, per la peculiare posizione isolata e marginale nell’ambito dell’arco alpino meridionale, presenta importanti elementi della struttura faunistica preglaciale e una spiccata caratterizzazione della fauna dal punto di vista biogeografico, con evidenti infiltrazioni dall’area sud est europeo-balcanica. Il progetto ha previsto la realizzazione di due monitoraggi triennali dal 2001 al 2008 (“Monitoraggio di Bioindicatori di pascoli e faggete” condotto nel territorio settentrionale del Parco e il “Monitoraggio faunistico di Invertebrati in ambienti naturali dell’area meridionale del Parco”) che hanno consentito di rilevare la presenza nell’area di una componente faunistica di assoluto rilievo, con un elevato numero di specie talora di notevole valore naturalistico. Molte le peculiarità faunistiche dell’area rinvenute, tra cui alcune specie nuove per la Scienza, come il Mollusco GasteropodeLimax giovannellae, endemita esclusivo delle Prealpi Giulie, e il Coleottero CurculionideDichotrachelus kahleni, endemita locale (Alpi Carniche e Prealpi Giulie) i cui rinvenimenti sul Gruppo del Monte Plauris hanno permesso di confermarne l’identità. Diverse sono state anche le segnalazioni di specie faunistiche nuove per l’Italia o per le Alpi Sud-orientali. I dati ottenuti hanno inoltre permesso di delineare una corretta gestione dell’area al fine di tutelare e valorizzare la biodiversità e le emergenze faunistiche presenti. In prospettiva i dati ottenuti costituiscono inoltre un primo step per la predisposizione di una banca dati della fauna del Parco, che può rappresentare il punto di partenza di un atlante faunistico regionale a fini conservazionistico-gestionali, eventualmente esteso in futuro all’intero territorio montano giulio-carnico.
Il Museo ha coordinato le ricerche sui licheni e le briofite nel Parco delle Prealpi Giulie, in collaborazione con il Dipartimento di Biologia dell’Università di Trieste. La flora macrolichenica è stata censita nei Monti Musi e Plauris, ben noti per essere aree di contatto fra caratteristiche biogeografiche europee e mediterranee, all’interno di Unità Geografiche di 2,75 x 3,25 km e in corrispondenza di ambienti diversificati, quali mughete, feggete, creste rocciose, muri a secco. Sono state censite 177 specie. Dal confronto delle due aree è emerso che la catena dei Monti Musi presentava una biodiversità maggiore di quella del Plauris, in quanto con circa 1100 campioni è stato possibile censire ben 109 taxa di cui 3 nuovi per la flora regionale (Cladonia ramulosa,Collema conglomeratumeLempholemma polyanthes). La lista floristica del monte Plauris, basata sull’identificazione di circa 500 campioni, ha compreso solamente 68 taxa, fra i quali però anche alcune specie mai segnalate per questa località, quali ad esempioHyperphyscia adglutinata. Nel complesso lo studio non ha messo in evidenza emergenze di eccezionale interesse Scientifico, se si escludono le nuove segnalazioni floristiche sopra citate, nonostante ciò i risultati dell’indagine hanno rivestito una notevole importanza documentale che in futuro potranno rappresentare un termine di riferimento per eventuali cambiamenti. Un dato importante che è emerso è che le faggete rappresentano l’ambiente maggiormente interessante per lo sviluppo di una ricca flora a macrolicheni, se i boschi sono annosi, disetanei e non troppo chiusi: condizioni queste comunque piuttosto rare. Per questo motivo sono state fornite all’Ente Parco, alcune indicazioni per la gestione delle faggete, finalizzate all’incremento della flora a macrolicheni.
Il Progetto di ricerca riguarda la convenzione sul “Monitoraggio della componente faunistica dei Biotopi naturali del Friuli Venezia Giulia”, stipulata tra il Museo Friulano di Storia Naturale di Udine e l’Azienda dei Parchi e delle Foreste Regionali del Friuli Venezia Giulia. La Direttiva 92/43/CEE, meglio nota come Direttiva Habitat, richiede agli stati membri dell’Unione Europea l’individuazione sul proprio territorio dei siti di interesse comunitario (SIC) selezionati in base alla presenza di habitat, naturali o seminaturali, e, per quanto attiene la fauna, specie incluse nell’allegato II della Direttiva (specie rare, endemiche, minacciate o in pericolo di estinzione). Accanto ai siti di interesse comunitario (SIC), un apposito progetto promosso dal Ministero dell’Ambiente (Progetto Bioitaly) ha consentito l’individuazione di siti di interesse nazionale (SIN) o eventualmente regionale (SIR). I SIC e SIN non inclusi in Parchi o Riserve del Friuli Venezia Giulia, in genere di limitata estensione, prendono il nome di “biotopi”. Il presente progetto si concentra su 18 biotopi regionali. Sono stati scelti diversi gruppi tassonomici considerati bioindicatori (molluschi, crostacei e, tra gli insetti, efemerotteri, odonati, plecotteri, coleotteri, ortotteri e lepidotteri), per ciascuno dei quali è stato predisposto un preciso protocollo metodologico di lavoro. Il numero di specie raccolte nei biotopi studiati ammonta complessivamente a 2200, ripartite tra i diversi gruppi tassonomici considerati. In linea generale i risultati del monitoraggio indicano che i lepidotteri, sia per l’elevatissimo numero di specie presenti, sia per il loro legame con la vegetazione e pertanto con i fattori climatici, sono degli ottimi bioindicatori a scala geografica. Diversamente, i coleotteri carabidi si sono rivelati un gruppo che consente di valutare la biodiversità dei singoli microhabitat e, essendo legato alla fauna del suolo, si presta a metodiche di indagini rigorosamente selettive per le diverse tipologie ambientali (es. boschi, prati, torbiere). Altri gruppi si sono rivelati meno idonei alla valutazione della qualità ambientale, come quelli più vistosi e ricchi di specie bandiera, come ortotteri ed odonati. In generale in base ai risultati ottenuti tutti i biotopi indagati sono risultati meritevoli di tutela, trattandosi di lembi relitti di una più vasta trama di ambienti naturali ormai in via di rapida scomparsa, in particolare per quanto riguarda l’area pedecollinare e planiziale.
Nel 1985 hanno avuto inizio le ricerche stratigrafiche del Museo presso il sito neolitico di Sammardenchia, proseguite fino al 1989 in collaborazione con il Museo Tridentino di Scienze Naturali. Nel 1994 le indagini furono riprese dopo alcuni anni di pausa con la collaborazione del Dipartimento di Storia della Civiltà Europea dell’Università di Trento. Negli oltre 15 anni scavo non è mai mancato l’appoggio logistico e finanziario dell’Amministrazione Comunale di Pozzuolo del Friuli e del Gruppo di Ricerche “Aghe di Poc”, che ha consentito la scoperta di 321 sottostrutture neolitiche (datate tra 5500 e 4500 a.C. ca) che rappresentano solo una minima parte di quelle che si stima essere ancora sepolte. Si tratta in genere di fosse più o meno regolari, di pozzetti cilindrici, di rare buche di palo, di strutture più ampie, quali un pozzo-cisterna del diametro di alcuni metri per la raccolta dell’acqua, alcuni acciottolati e un sistema a doppio fossato per la delimitazione e il drenaggio di un villaggio. Il materiale archeologico raccolto è stato sottoposto a catalogazione ed a analisi tecnico-scientifiche.
Tra 1982 e 1985 il riparo è stato oggetto di scavi stratigrafici sotto la direzione di Francesca Bressan del Museo Friulano di Storia Naturale e Antonio Guerreschi dell’Università degli Studi di Ferrara. Sono state condotte quattro campagne di scavo che hanno interessato un’area di circa 4 m2. Il sito, in riva sinistra del Fiume Natisone (San Pietro al Natisone), conserva un’importante sequenza che si colloca tra la fine del Paleolitico superiore e l’età del Bronzo. Il livello più antico (US 5) è riferibile all’Epigravettiano recente, mentre quelli sovrastanti (UUSS 4, 3B e 3A) sono datati rispettivamente al Mesolitico di fase antica (Sauveterriano) e recente (Castelnoviano). Il Riparo di Biarzo è uno dei principali siti per la ricostruzione del popolamento dell’Italia nord-orientale tra la fine del Pleistocene e l’inizio dell’Olocene e per tale ragione a partire dal 2010 il Museo e l’Università di Ferrara hanno ripreso lo studio dei materiali e dei campioni naturalistici raccolti nel corso degli scavi. Tra i tanti esiti di tali approfondimenti, ricordiamo lo studio genetico condotto su resti di suini dai livelli mesolitici che ha permesso di ipotizzare una domesticazione locale di questa specie.