Questa esposizione invita a scoprire uno dei legami esistenti tra natura e cultura. Attraverso un percorso ricco di suggestioni, la cooperazione emerge come motore dell’evoluzione e dell’eccellenza, rivelando analogie e sorprendenti differenze tra due mondi così lontani, anche se intimamente legati. La mostra vuole ribadire l’importanza della ricerca scientifica, stimolare il dialogo tra diverse discipline e invitare ad approfondire temi che possono aiutare a capire meglio il nostro mondo.
Il percorso esplora il legame profondo tra paesaggio e comunità, mettendo in luce come il territorio non sia stato modellato solo per ragioni pratiche, ma plasmato anche per finalità simboliche e sociali.
I tumuli e i castellieri friulani, infatti, non sono semplici testimonianze archeologiche, ma disegnano un’idea di comunità in cui la cooperazione ha un ruolo decisivo. In questo la costruzione del colle del Castello di Udine rappresenta un caso esemplare, documentando l’importanza della pianificazione e della condivisione di risorse e competenze.
Nel corso del Bronzo Antico, l’alta pianura friulana era costellata dalla presenza di decine di tumuli funerari.
I tumuli funerari erano distribuiti su una fascia larga circa 10 chilometri, tra i fiumi Torre e Tagliamento, e da alcuni abitati fortificati (o castellieri). I tumuli sono collinette artificiali di 25-30 metri di diametro e di circa 6,5–7 metri di altezza, oggi conservati in numero limitato. Accoglievano le spoglie di membri eminenti delle comunità del Bronzo Antico e risalgono agli inizi del II millennio a.C., ossia ad una fase precedente la nascita dei castellieri. In alcuni casi questi tumuli mantennero la loro rilevanza per secoli, assumendo significati e funzioni differenti: tra il XIX e il XIII secolo a.C., oltre al ruolo funerario, rappresentarono simboli del controllo territoriale da parte delle comunità che li avevano eretti; una funzione che, in seguito, sarebbe stata assunta dagli abitati fortificati. Erano inoltre luoghi di incontro e celebrazione, punti di osservazione e riferimenti nei percorsi di scambio.
I castellieri friulani si svilupparono in una fase leggermente successiva, diffondendosi soprattutto durante il Bronzo Medio. Un’eccezione è rappresentata dal castelliere di Sedegliano, dove, all’interno del terrapieno, sono state rinvenute cinque sepolture databili tra il 1900 e il 1600 a.C. La piena fioritura dei castellieri risale al pieno Bronzo Medio, con la fondazione dei castellieri di Udine, Variano di Basiliano, Galleriano di Lestizza e Savalons di Mereto di Tomba. In fasi successive, altri castellieri sorsero lungo la fascia delle risorgive e in prossimità dei fiumi. Tra la fine del Bronzo Medio e il Bronzo Recente (XIV–XIII secolo a.C.), si assistette a una occupazione capillare della bassa pianura friulana.
La diffusione dei castellieri sembra aver tenuto conto della presenza dei più antichi tumuli funerari, spesso posti in posizioni intermedie tra un castelliere e l’altro, quasi a marcare i confini tra i territori delle diverse comunità. La distribuzione degli abitati sembra indicare una chiara consapevolezza - e forse anche un rispetto - delle aree di pertinenza di ciascun gruppo, che durante la fase più antica del fenomeno (Bronzo Medio) si stabilì a distanze regolari comprese tra gli 8 e i 10 chilometri.
In base ai rinvenimenti archeologici, l’abitato protostorico di Udine si estendeva a sud e ovest del colle del Castello, dall’attuale via Mercatovecchio all’ex ospedale civile e da via Manin alla chiesa di S. Francesco.
Con una continuità insediativa di circa mille anni, dal Bronzo Medio all’inizio della seconda età del Ferro (circa 1500-500 a.C.), rappresenta l’insediamento fortificato più esteso e complesso della protostoria friulana. Sorto su una modesta altura, occupava una superficie di circa 20 ettari – da cinque a dieci volte superiore a quella degli abitati coevi della pianura – ed era delimitato da un terrapieno e da un fossato. I resti si conservano a poca profondità, grazie alla posizione sopraelevata e ben drenata dell’altura, che protesse l’area dalle alluvioni ma favorì, nel tempo, l’erosione dei livelli protostorici, successivamente alterati dall’urbanizzazione medievale.
Tra le strutture emerse vi sono fosse di scarico, buchi di palo e pozzetti, insieme a materiali come ceramiche, fusaiole, pesi da telaio, resti di pareti in incannucciato e pavimenti in concotto, che restituiscono frammenti di vita domestica. Due abitazioni sono state finora individuate: una casa del Bronzo Recente, sotto Palazzo Mantica, con pianta rettangolare, pareti lignee e un focolare più volte ristrutturati; un’altra a piazza Venerio, con vano-magazzino interrato per la conservazione delle scorte alimentari, distrutta da un incendio nel VI-inizi V sec. a.C. Sotto Palazzo Dorta è invece emersa un’area artigianale per la rifusione di piccoli oggetti in bronzo, attiva dal Bronzo Medio alla prima età del Ferro. Non sono state identificate con certezza delle necropoli, ma alcuni oggetti – due fibule provenienti da piazza I Maggio e Planis e un’ascia rinvenuta in viale Ungheria – sembrano riferibili a contesti funerari dell’età del Ferro oggi perduti.
Per approfondire la storia della città Udine, dall’età del Bronzo all’età moderna, è disponibile il volume “Archeologia Urbana a Udine”. La presentazione, a cura del prof. Mark Pearce, è disponibile in questo video. Un contributo scientifico di rilievo per comprendere l’evoluzione storica e urbana della città attraverso le evidenze archeologiche.
Un breve tratto dell’argine originario, conservato per un’altezza compresa tra 80 e 120 centimetri, è stato individuato sotto Palazzo Mantica, sul versante sud-orientale del colle del Castello. Sebbene i dati a disposizione siano limitati, la cinta difensiva di Udine doveva già presentarsi come un’opera monumentale al passaggio tra Bronzo Medio e Bronzo Recente (XIV–XIII secolo a.C.). Lo scavo archeologico ha messo in luce tre distinte fasi costruttive dell’argine, tutte caratterizzate da una notevole perizia tecnica. Il nucleo originario del terrapieno fu ampliato una prima volta con la tecnica della ‘terra armata’: cassoni lignei riempiti con ghiaia, limo argilloso e ciottoli venivano disposti a scacchiera su più livelli, talvolta con elementi più piccoli ruotati di 45°. Strutture lignee interne agivano da barriere stabilizzanti, garantendo solidità e coesione all’intera costruzione.
Nelle fasi avanzate della costruzione del terrapieno si utilizzarono delle strutture più leggere, chiamate ‘gabbioni’: si trattava di intelaiature in legno riempite con materiali inseriti in sacchi o ceste. Secondo una stima, se 100 operai fossero stati impegnati ogni giorno a spostare circa 1 metro cubo di terra ciascuno, l’intera costruzione avrebbe richiesto tra i 2 anni e mezzo e i 4 anni di lavoro.
Al centro di Udine, visibile da ogni angolo della città, si innalza il colle del Castello: una presenza imponente e isolata, alta circa 30 metri e con una base di 200 metri di diametro.
Questo rilievo domina il paesaggio urbano ed è da secoli uno dei simboli più riconoscibili non solo della città, ma dell’intera regione. Attorno a esso sono nate leggende, racconti popolari e ipotesi affascinanti, che hanno incuriosito studiosi di ogni epoca. Le più recenti indagini archeologiche e geo-archeologiche (2020-2022) hanno chiarito la sua natura: si tratta di una struttura realizzata interamente dall’uomo con strati sovrapposti di ghiaie e argille, resi stabili grazie all’impiego di strutture lignee. Un rilievo ( mound, in inglese) monumentale, che si stima racchiuda tra i 400.000 e i 450.000 metri cubi di sedimenti.
La sua costruzione, in base alle datazioni disponibili, si colloca tra la fine del Bronzo Medio e l’inizio del Bronzo Recente (circa 1400-1300 a.C.). La realizzazione di una collina artificiale tanto imponente sembra rispondere a un progetto unitario: lo scavo dell’area oggi occupata da piazza I Maggio avrebbe fornito il materiale per edificare l’altura, generando contestualmente un bacino idrico al servizio dell’abitato protostorico di Udine. Un’opera pianificata, che garantiva un punto strategico di avvistamento e controllo del territorio, eretta come testimonianza tangibile della potenza della comunità.
Per approfondire la storia delle indagini condotte sul colle del castello e i risultati dell’analisi dei reperti e delle strutture rinvenute, è disponibile il volume “Archeologia Urbana a Udine. Contributi per una rilettura dei dati provenienti dal colle del castello”. La presentazione, a cura del prof. Alessandro Fontana, è disponibile in questo video.
La lettura dei più recenti dati geo-archeologici relativi al colle del Castello di Udine ha messo in luce gli aspetti più rilevanti di un progetto straordinariamente pianificato, la cui realizzazione ha richiesto la cooperazione organizzata di un’intera comunità. Per modellare questa imponente altura – una struttura a forma di tronco di cono, con pendii realizzati a gradoni – vennero movimentati tra i 400.000 e i 450.000 metri cubi di sedimenti, provenienti principalmente dall’area dove oggi si trova piazza I Maggio. Le dimensioni monumentali e la complessità dell’opera indicano una pianificazione accurata delle fasi costruttive, l’uso di tecniche consolidate e la presenza di manodopera specializzata, impegnata per un lungo periodo. In base alle stime attuali, con un impiego costante di 100 lavoratori la costruzione avrebbe richiesto circa 10-12 anni; con 300 operai 3-4 anni; mentre con 500 lavoratori si sarebbe potuta completare in poco più di 2 anni, tra i 26 e i 30 mesi.
Per modellare il colle sono stati movimentati detriti per
450.000 m³
Ipotesi di tempo necessario
10 anni
Ipotesi di tempo necessario
2 anni
Età del Bronzo
comunità composte da
100 persone
Al giorno
movimentazione terra
con cesti
1 m³
1700 d.C.
movimentati detriti per
1500 m³
Considerate le dimensioni ridotte delle comunità friulane dell’età del Bronzo – composte ciascuna da poche centinaia di persone – è plausibile che la costruzione del colle del Castello di Udine abbia richiesto il contributo di manodopera proveniente anche da insediamenti vicini. In una società pre-industriale, dotata soltanto di strumenti in legno, corno e semplici cesti, si stima che ogni lavoratore potesse movimentare circa 1 metro cubo di terra al giorno. Questo dato teorico trova un riscontro concreto anche in epoche molto più recenti: nel 1700, durante i lavori di bonifica dello stagno che occupava l’attuale piazza I Maggio (allora noto come Giardin Grande), 48 operai armati di pale metalliche impiegarono 32 giorni per rimuovere 1500 metri cubi di terra, mantenendo una media giornaliera per persona sorprendentemente simile a quella stimata per l’età protostorica.
Per gli esseri umani l’altruismo è un concetto che porta con sé implicazioni etiche e domande filosofiche: un’azione è altruistica se viene portata a termine con l’intenzione consapevole di aiutare qualcun altro.
Esiste qualcosa di simile anche nelle altre specie? L’altruismo nel mondo animale è un comportamento ancora dibattuto dagli scienziati e che rimane in parte misterioso. Un fenomeno difficile da definire, che sembrerebbe contraddire le basi stesse della teoria dell’evoluzione. Fu studiando i sistemi sociali degli imenotteri (api, vespe, formiche) che Charles Darwin si trovò di fronte a un dilemma che rischiava di compromettere la sua teoria. La presenza fra gli insetti di intere caste ‘altruiste’, cioè che rinunciano ad avere una prole propria dedicando la vita al bene comune, era in disaccordo con il principio della selezione naturale del più adatto, se per ‘più adatto’ si intende l’individuo con il maggior successo riproduttivo. Questo dilemma, secondo Darwin, poneva alla scienza domande cruciali che non interessavano solamente gli insetti, ma che coinvolgevano anche la più complessa delle società, quella umana.
L’altruismo può essere una scelta efficace, portatrice di molti benefici, e non si tratta affatto di una prerogativa della specie umana: al contrario, mammiferi, uccelli, pesci, fino agli invertebrati e ai microorganismi ‘sanno’ essere altruisti.
Che differenza c’è tra un lupo solitario e un lupo che vive in branco?
Siamo spesso inclini a pensare che le specie con un comportamento sociale complesso siano in un certo senso più evolute. Non a caso consideriamo noi stessi come il fiore all’occhiello dell’evoluzione! In realtà la vita sociale comporta molti costi. Gli animali che vivono in gruppo devono competere con i propri simili per lo spazio, il cibo e i partner e sono più esposti al rischio di epidemie.
Competizione e lotta per la sopravvivenza sono dunque gli unici motori dell’evoluzione?
Il filosofo e zoologo russo Pëtr A. Kropotkin pensava che il mutuo appoggio fosse tanto una legge della vita animale quanto lo è la lotta reciproca, e che anzi avesse un’importanza maggiore per i benefici che apporta alle specie che lo praticano.
'Ovunque ho visto la vita animale abbondare. Per esempio sui laghi dove decine di specie e milioni di individui si riuniscono per allevare la propria prole; nelle colonie di roditori; nelle migrazioni di uccelli che a quel tempo avvenivano lungo l’Ussuri […]: in tutte queste scene di vita animale che scorrevano davanti ai miei occhi, ho visto l’Aiuto Reciproco e il Mutuo Appoggio'.
P. A. Kropotkin, Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione, 1902
Gli animali infatti, vivendo insieme, possono aiutarsi in molti modi.
La scelta della vita sociale si basa allora su un continuo bilancio tra costi e benefici. È tutta una questione di equilibrio. Quando gli individui traggono un vantaggio immediato da un comportamento si parla di cooperazione, come nella caccia o nella difesa dai predatori. Quando invece un individuo si comporta in modo altruistico perché si aspetta di ottenere in seguito una ricompensa, si parla allora di reciprocità: è il caso del grooming, l’usanza di spulciarsi a vicenda. In altre parole, la massima ‘tratta il prossimo tuo come vorresti essere trattato’ o, più cinicamente, ‘nessuno fa niente per niente’ vale anche nel mondo animale.
Le formiche Matabele ( Megaponera analis) soccorrono le proprie compagne ferite sul ‘campo di battaglia’. Le trasportano al sicuro nel formicaio dove le curano leccandole per molto tempo. Il trattamento è riservato agli esemplari con buone probabilità di sopravvivere.
Ma anche fra specie diverse esistono interazioni all’insegna della collaborazione, o per lo meno, della reciproca tolleranza, nel corso delle quali le specie coinvolte ‘barattano’ tra loro risorse o ‘servizi’. Questi rapporti possono essere occasionali, duraturi o addirittura irrinunciabili per la sopravvivenza degli organismi coinvolti, come nelle simbiosi obbligate, quando due specie sono strettamente interdipendenti tra loro. La vita dell’una sarebbe impossibile senza la vita dell’altra!
Quando le specie coinvolte nelle interazioni traggono ugualmente vantaggi dal rapporto, si parla di mutualismo: un esempio classico è l’alleanza fra piante e insetti, che nutrendosi del nettare prodotto dai fiori permettono l’impollinazione. Ma la solidarietà inter-specifica assume le più varie configurazioni: ogni specie mette sul piatto della vita comunitaria i suoi pezzi forti. Richiami d’allarme degli uccelli che i rettili hanno imparato a riconoscere.
Joint venture di predatori ciascuno con la propria tecnica di caccia. Parassiti cutanei tanto fastidiosi per i pachidermi quanto ghiotti per gli uccelli pulitori. Enormi corpi di squali che funzionano come taxi per innocui pesci pilota.
La rete di scambi, più o meno interessati, più o meno convenienti fra esseri viventi è parte del grande sistema interconnesso che si chiama ecologia.
Coalizione di caccia tra cernia pavone ( Cephalopholis argus) e murena bocca bianca ( Gymnothorax meleagris). Per coinvolgere le murene in una caccia comune le cernie utilizzano segnali visivi: le richiamano dalle loro tane scuotendo la testa, fino a farsi seguire. Quando cacciano insieme nella barriera corallina le due specie combinano le loro differenti tecniche: la cernia si posiziona presso un’apertura per bloccare l’uscita della preda, nel frattempo la murena si muove verso l’interno. In questo modo la preda non ha vie di fuga ed entrambe le parti beneficiano di un maggiore successo predatorio.
Quando guardiamo all’altruismo nel mondo animale dalla nostra prospettiva umana, il rischio è quello di antropomorfizzare i comportamenti degli altri animali, caricandoli di significati morali.
Se guarda alla bilancia del comportamento, invece, un biologo considera come veramente altruista solo un’azione in cui i costi siano maggiori dei benefici. In alcune specie, ci sono individui che sembrano compiere scelte radicali, come la rinuncia alla riproduzione o il sacrificio della propria vita. Perché lo fanno?
È la domanda che si pose Charles Darwin in merito ai diversi ruoli sociali che nelle colonie di insetti determinano le esistenze e i destini dei singoli:
'Questa difficoltà, sebbene appaia insuperabile, è diminuita, o, come io credo, sparisce, quando si ricordi che la selezione può essere applicata alla famiglia come all’individuo, e così può raggiungere lo scopo desiderato'.
C. Darwin, L'origine della specie, 1859
La chiave per comprendere i comportamenti altruistici sembra allora risiedere nel patrimonio genetico condiviso fra parenti.
Ma è possibile estendere il concetto di famiglia anche a gruppi di individui non strettamente imparentati tra loro ma ugualmente coesi?
Se immaginiamo una situazione in cui in una specie ci sono tanti gruppi che competono tra di loro per le risorse, all’interno del gruppo conviene essere altruisti, collaborare e aiutarsi vicendevolmente. Questa teoria, nota come selezione di gruppo, è in grado di spiegare le forme di altruismo più radicali, quelle che si esprimono al di fuori della famiglia.
In molte specie di uccelli e di mammiferi, alcuni individui rinunciano alla riproduzione o la ritardano di qualche anno per aiutare i genitori ad allevare i loro fratelli, fornendo cibo e proteggendo i piccoli dai predatori. La scelta se diventare o meno aiutanti può dipendere dalla disponibilità di habitat di qualità o di partner riproduttivi. Se questi scarseggiano può essere conveniente garantire la sopravvivenza dei propri fratelli con i quali un individuo condivide il 50% del proprio patrimonio genetico.
Gli scienziati hanno cercato nuove spiegazioni evoluzionistiche che interpretano la selezione naturale in modo più complesso, analizzando molteplici fattori. Fra questi, per spiegare il senso dei comportamenti altruisti, c’è l’empatia: un coinvolgimento emotivo che spinge gli animali sociali ad andare oltre il freddo calcolo dei costi-benefici delle loro azioni e che si manifesta anche tra individui di specie diverse.
L’empatia, la capacità di riconoscere gli stati d’animo dell’altro e di mettersi nei suoi panni, in alcuni animali dà vita a gesti di altruismo disinteressato che non sono più prerogativa dei soli esseri umani. Soccorrere chi è in difficoltà, consolare chi attraversa un momento difficile, perfino piangere i propri morti, come fanno gli elefanti, sono tutti comportamenti documentati nel regno animale.
Queste reazioni alla condizione dei propri simili potrebbero sembrare misteriose o inspiegabili, se non fosse che rispecchiano esattamente ciò che facciamo anche noi umani.
Nel vedere un proprio compagno imprigionato i ratti soffrono stati di stress. Esperimenti di laboratorio condotti sulla natura empatica dei loro comportamenti, hanno dimostrato che questi roditori preferiscono liberare il proprio simile e condividere con lui una tavoletta di cioccolata, piuttosto che tenere egoisticamente tutto il cibo per sé stessi, con ‘un nodo in gola’.
Tra gli scimpanzè ( Pan troglodytes), dopo un conflitto tra due individui, in molti casi gli altri membri del gruppo decidono di consolare chi ha avuto la peggio con baci e carezze. Non è ancora del tutto chiaro perché invece non decidano di adulare il vincitore, una scelta che potrebbe essere per loro più vantaggiosa. Anche i protagonisti dei combattimenti, al termine dello scontro, spesso cercano la riconciliazione scambiandosi simili gesti di affetto. Quando non lo fanno spontaneamente, è una femmina a fare da mediatrice. Questi comportamenti ristabiliscono l’armonia e contribuiscono al benessere dell’intero gruppo.
Le megattere ( Megaptera novaeangliae) difendono altre specie marine dagli attacchi delle orche ( Orcinus orca) interferendo con le loro manovre di caccia. Non è chiaro il motivo per cui rischiano di ferirsi e sprecano così tanta energia per proteggere altri cetacei, pinnipedi e anche i pesci luna. O forse il loro obiettivo è solo quello di danneggiare uno dei loro più acerrimi nemici? Gli attacchi delle orche infatti, se difficilmente possono abbattere l’enorme megattera adulta, sono invece fatali per i loro cuccioli.
Una mostra rappresenta un’opportunità per esplorare nuovi temi e stimolare la curiosità. Ma non si limita a questo.
È anche un’occasione unica per approfondire. Può diventare uno strumento fondamentale per raccogliere dati verificabili e aggiornati e, infine, può contribuire a sviluppare nuove conoscenze, coinvolgendo – grazie a libri e materiali divulgativi – lettori di tutte le età e livelli di conoscenza. In questo processo, il Museo svolge naturalmente un ruolo chiave e, in collaborazione con quanti si dedicano alla ricerca e alla sua diffusione, può offrire spunti preziosi. Leggere e riflettere sono infatti gesti semplici, ma in grado di produrre cambiamenti profondi, perché la conoscenza cresce quando viene condivisa.
Selezione di letture scientifiche e testi di riferimento che hanno ispirato la mostra
EMPATIA
• Ben-Ami Bartal I., Decety J., Mason P. 2011 -
Empathy and Pro-Social Behavior in Rats, Science, 34(6061): 1427-1430.
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• De Waal F.B. M. 2008 -
Putting the Altruism Back into Altruism: The Evolution of Empathy, Annual Review of Psychology, 59: 279-300.
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• De Waal F.B. M., Aureli F. 1999 -
La risoluzione dei conflitti nei primati, in Enciclopedia Treccani, Frontiere della Vita.
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• Frank E.T., Wehrhahn M., Linsenmair K. E. 2018 -
Wound treatment and selective help in a termite-hunting ant, Proceedings of the Royal Society. Biological sciences, 285(1872): 20172457.
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• Miralles A., Raymond M., Lecointre G. 2019 -
Empathy and compassion toward other species decrease with evolutionary divergence time, Scientific Reports, 9: 19555.
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• Pérez-Manrique A., Gomila A. 2018 -
The comparative study of empathy: sympathetic concern and empathic perspective-taking in non-human animals, Biological Reviews. Cambridge Philosophical Society, 93(1): 248-269.
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• Zahn-Waxler C., Hollenbeck B., Radke-Yarro M. 1984 -
The Origins of Empathy and Altruism, in Fox M. W., Mickley L. D. (eds), A
dvances in animal welfare science 1984/85, Washington DC, The Humane Society of the United States: 21-41.
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ALTRUISMO
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• Nazzi F., Vianello A. (eds) 2018 -
L'altruismo. Competizione e cooperazione dalla biologia all'economia, dalla filosofia alle neuroscienze, Quaderni di Aperture. Idee, scienza e cultura, Udine, Forum Edizioni.
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• Picard A., Mundry R., Auersperg A., Boeving E., Boucherie P., Bugnyar T., Dufour V., Emery N., Federspiel I., Gajdon G., Guéry J.-P., Hegedič M., Horn L., Kavanagh E., Lambert M., Massen J., Rodrigues M., Schiestl M., Schwing R., Szabo B., Taylor A., van Horik J., von Bayern A., Seed A., Slocombe K. 2019 -
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Archeologia Urbana a Udine. Contributi per una rilettura dei dati provenienti dal colle del Castello, Udine, Comune di Udine, Edizioni del Museo Friulano di Storia Naturale, 58, 398 p.
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• Visentini P. (ed.) 2024 -
Archeologia Urbana a Udine, Udine, Comune di Udine, Pubblicazioni varie del Museo Friulano di Storia Naturale, 76, 416 p.
Link
Proposte di letture, a cura della libreria CLUF di Udine, dedicate all’esplorazione di tematiche laterali a quelle trattate nella mostra “Cooperare e distinguersi”
COOPERAZIONE
• Emanuela Borgnino,
Ecologie native, elèuthera, 2022
• Michael Tomasello,
Altruisti nati, Bollati Boringhieri, n. ed. 2025
• Vittorio Lingiardi,
Io, tu, noi, Utet, 2019
• Aldo Bonomi (a cura di),
Sul confine del margine. Tracce di comunità in itinere, Derive Approdi, 2024
• Adele Clarke, Donna Haraway,
Making Kin. Fare parentele, non popolazioni, Derive Approdi, 2022
• Adriana Giannini, Lynn Margulis,
La scoperta dell’evoluzione come cooperazione, L’Asino d’oro, 2021
• Stefano Bocchi,
L’ospite imperfetto, Carocci, 2021
• Tim Ingold,
Siamo linee, Treccani, n. ed. 2024
• Frédéric Maupomé,
Muri, Nomos, 2025
• Mac Barnett illustrato da Jon Klassen,
Sam e Dave scavano una buca, Terre di Mezzo, rist. 2023
• Marcos Farina,
Io, tu e gli altri, Ukids, 2025
• Satomi Ichikawa,
Amici, Orecchio Acerbo, 2023
• Anne Jankéliowitch, Isabelle Simler,
Regni minuscoli, 2022
CREAZIONE
• Francesco Faccin,
Zattere, Corraini, 2024
• Elena Granata,
Placemaker, Einaudi, 2021
• Pedro Torrijos,
Territori improbabili, Saggiatore, 2024
• Dan Nott,
Sistemi nascosti, Quinto Quarto, 2024
• Andrea Staid,
Dare forme al mondo, Utet, 2025
• Tim Ingold,
Making, R. Cortina, 2019
• Rompere le regole, Utet, 2019
• Bruno Munari,
Pensare confonde le idee, Corraini, 2023
• Michele De Lucchi,
L’architetto, Corraini, 2024
• Cruschiform,
L’odissea dei semi, L’Ippocampo, 2024
• Isabelle Simler,
Casa, L’Ippocampo, 2023
• Francesco Spampinato, Irene Rinaldi,
Facciamo presente, Topipittori, 2025
• Emmanuelle Figueras, Claire De Gastold,
Animali tuttofare, L’Ippocampo, 2022
• Guia Risari, Alessandro Sanna,
La Terra respira, Lapis, 2022
• Julie Bernard,
Il banchiere di semi, Terre di Mezzo, 2024
• Aude Le Pichon, Arnaud Nebbache,
Da capogiro, Donzelli, 2024
• Judith Schlansky,
Inventario di alcune cose perdute, Nottetempo, 2020
EVOLUZIONE
• Rebecca Solnit,
Storia del camminare, Ponte alle Grazie, 2022
• David Quammen,
L’evoluzionista riluttante, R. Cortina, 2025
• Sean B. Carroll,
Una serie di fortunati eventi, Codice ed., 2022
• Gabriele Ferrari,
Polvere e ossa, Codice ed., 2023
• Stephen Jay Gould,
Questa idea della vita, Codice ed., 2022
• Marco Ferrari,
L’evoluzione è ovunque, Codice ed., 2021
• Christiane Vadnais,
Faune, Codice ed., 2023
• Henry Bergson,
L’evoluzione creatrice, Bur Rizzoli, rist. 2025
• Mauro Garofalo,
La tigre e l’usignolo, Nottetempo, 2025
• Stephen Jay Gould,
Il pollice del panda, Saggiatore, 2016
• Giorgio Manzi,
Antenati, Il Mulino, 2024
• Fabien Grolleau, Thomas Brochard-Castex,
Grande oceano, Add ed., 2023
• Nicoby Vincent Zabus,
Il mondo di Sofia, Longanesi, 2022
• Roberta Ragona Tostoini,
Fossili viventi, Aboca kids, 2025
• Serenella Quarello, Alessio Alcini,
Estintopedia, Camelozampa, rist. 2024
• Aina Bestard,
Paesaggi perduti della Terra, L’Ippocampo, 2020
• Anna Claybourne, Wesley Rbins,
Meravigliosa evoluzione, Editoriale Scienza, 2020
• Desmond Morris,
La scimmietta nuda, Bompiani, 2025
• Neil Packer,
Unico nel suo genere, Camelozampa, 2022
• David Graeber, David Wengrow,
L’alba di tutto, Bur Rizzoli, rist. 2025
•
Ingannare il tempo. Bruno Munari archeologo, Corraini, 2024
INTERCONNESSIONI
• Venezia e l’Antropocene, Wetlands, 2022
• Serge Latouche,
Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea, elèuthera, 2025
• Fred Bodsworth,
L’ultimo dei chiurli, Adelphi, 2025
• Anna Marson, Antonella Tarpino,
Sguardi sul paesaggio, Manifestolibri, 2025
• Niccolò Scaffai,
Sotto l’inesauribile superficie delle cose, Aboca, 2025
• Marco Deriu,
Rigenerazione, Castelvecchi, 2022
• Donna Haraway,
Chthulucene, Nero ed., 2023
• Tim Ingold,
Il futuro alle spalle, Meltemi, 2024
• Andrea Staid,
Essere natura, Utet, 2022
• Valentina Gottardi,
Lumen, Cocaibooks, 2024
• Adriano Favole,
Vie di fuga, Utet, 2021
UMANITÀ E NATURA
• Long Litt Woon,
La via del bosco, Iperborea, 2023
• Alberto Moravia,
Storie della preistoria, Bompiani, 2017
• Giorgio Vallortigara,
Pensieri della mosca con la testa storta, Adelphi, 2021
• Giorgio Vallortigara,
Altre menti, Il Mulino, 2000
• Giorgio Vallortigara,
Cervello di gallina, Bollati Boringhieri, 2024
• Sy Montgomery,
Il tempo delle tartarughe, Aboca, 2025
• Paco Calvo,
Planta Sapiens, Saggiatore, 2022
• Francesca Buoninconti,
Senti chi parla, Codice ed., 2021
• Nicholas P. Money,
Natura veloce, natura lenta, Codice ed., 2022
• Eva Meijer,
Linguaggi animali, Nottetempo, 2021
• Emmanuelle Pouydebat,
Quando gli animali e le piante ci ispirano, Espress, 2021
• Emmanuelle Pouydebat,
L’intelligenza animale, Corbaccio, 2018
• Telmo Pievani,
La natura è più grande di noi, Solferino, 2022
•
Umani e non umani. Noi siamo natura, Utet, 2024
• Aimee Nezhukumatathil,
Un mondo di meraviglie, Nottetempo, 2024
• Francesco Remotti,
Fare umanità, Laterza, 2013
• Nat Cardozo,
Origine, L’Ippocampo 2023
OLTRE LE BARRIERE
• Bell Hooks,
Scrivere oltre la razza, Saggiatore, 2024
• Alexis Pauline Gumbs,
Undrowed, Timeo, 2023
• Lorraine Daston,
Contro natura, Timeo, 2024
• Lino Leonardi,
Razza, Il Mulino, 2024
• Mirella Orsi, Sergio Ferraris (a cura di),
Prime. Dieci scienziate per l’ambiente, Codice ed., 2023
• Guido Barbujani,
L’alba della storia, Laterza, 2024
• Jackie Higgins,
Senzienti, Longanesi, 2025
• Tim Ingold,
Antropologia, Meltemi, 2020
• Nicole Shukin,
Capitale animale, Tamu, 2023
• Annalisa Strada, Mary Anning,
La cacciatrice di fossili, Editoriale scienza, 2025
• Cristina Petit,
Qualcosa che c’entra con la felicità, Pulce, 2021
• Issa Watanabe,
Migranti, Logos, 2023
• Federica Buglioni,
Alfabeti naturali, Topipittori, 2023
• La biblioteca degli animali di Tatsu Nagata, L’elefante, Nomos, 2025
• La biblioteca degli animali di Tatsu Nagata, L’ape, Nomos, 2025
• Rosie Haing,
Noi animali umani, Donzelli, 2022
• Chiara Grasso,
Una famiglia bestiale, Macadamia, 2024
L'altopiano calcareo che sta alle spalle della città di Trieste presenta tutte le forme carsiche epigee (conche chiuse, doline, campi solcati, ecc.) ed ipogee. Delle migliaia di grotte che lo costellano, almeno 180 sono state frequentate a partire dal Paleolitico inferiore (circa 500.000 anni da oggi) in poi.
La lettura aggiornata dei contesti datati al III millennio a.C. ha portato a nuove ipotesi sia sull'uso di alcuni siti, ad esempio come luoghi di sosta per i pastori e le loro greggi di pecore e capre, sia sui contatti che i frequentatori del territorio avrebbero avuto con regioni più o meno lontane. Sono infatti scarsi i termini di paragone con l'Italia settentrionale, mentre appaiono più numerosi con le regioni poste a est.
La speleologia in Friuli può vantare quasi 150 anni di storia. Dopo le prime esplorazioni occasionali, nel 1897 nasce infatti a Udine, sotto gli auspici della Società Alpina Friulana, il primo gruppo speleologico in territorio italiano: il Circolo Speleologico e Idrologico Friulano. Alla prima presidenza viene chiamato Achille Tellini (1866-1938), ma tra le file del sodalizio passano personaggi di alto spessore scientifico, quali Giovanni Nallino (1836-1906), Francesco Musoni (1864-1926), Giovanni Battista De Gasperi (1892-1916), Giuseppe Feruglio (1882-1918), Egidio Feruglio (1897-1954), Michele Gortani (1883-1966) e Ardito Desio (1897-2001). Contestualmente nasce anche l'interesse per i depositi archeologici celati in queste cavità, specialmente per le evidenze riferite alla Preistoria, disciplina scientifica che in Italia nacque, al pari del C.A.I., proprio nella seconda metà dell'Ottocento.
Nella cavità tra il 1982 e il 1984 sono state condotte campagne di scavo, sotto la direzione dell'Università degli Studi di Ferrara e del Museo Friulano di Storia Naturale. Queste hanno restituito tracce di frequentazioni datate a partire da 13.000 anni fa. Nel corso del tempo il Riparo Biarzo è stato al centro di diversi studi che hanno permesso di ottenere un quadro via via più completo delle dinamiche insediative e del contesto culturale ed ambientale riferito alle diverse fasi di frequentazione. I dati sinora emersi dallo studio multidisciplinare evidenziano una certa continuità nelle strategie di sussistenza, soprattutto nella selezione delle prede cacciate e nelle dinamiche insediative delle fasi più antiche tra Epigravettiano e Mesolitico. Tale continuità potrebbe essere legata alla stabilità dell'ambiente tra tardo Pleistocene e Olocene antico nell'area della Valle del Natisone. La posizione del Riparo di Biarzo ne fa un sito ideale come campo base dal quale spostarsi tra le medie quote e la pianura per lo sfruttamento di un'ampia varietà di nicchie ecologiche.
Unità stratigrafiche individuate nel corso dello scavo condotto al Riparo di Biarzo (dal basso verso l'alto): I'US5 è riferita all'Epigravettiano recente, le US 4 (non sempre presente) e 3B sono riferite al Mesolitico antico, I'US 3A al Mesolitico recente, I'US2 al Neolitico e all'età del Bronzo, infine l'US1 è una unità sterile.
Schema della scala geocronologica, delle unità stratigrafiche, delle fasi archeologiche e dei reperti più rappresentativi documentati nel Riparo di Biarzo. Dal basso verso l'alto: I'US5 è riferita all'Epigravettiano recente, le US 4 (non sempre presente) e 3B sono riferite al Mesolitico antico, I'US 3A al Mesolitico recente, I'US2 al Neolitico e all'età del Bronzo, infine l'US1 è una unità sterile.
Le grotte sono utilizzate da un numero relativamente limitato di specie animali e la documentazione fossile a disposizione proviene soprattutto dagli scavi archeologici, che non possono però rispecchiare pienamente il popolamento dell'epoca. Quest'insieme è infatti costituito dagli animali che vi vivevano (seppur temporaneamente), da quelli che vi cadevano accidentalmente o vi venivano fluitati, dall'uso delle cavità per la stabulazione degli animali, dalla selezione operata dall'uomo con le attività venatorie, di macellazione e di preparazione degli strumenti. A queste si somma l'abitudine, relativamente più recente e assolutamente deprecabile, di gettare le carcasse di animali nelle cavità.
Quest'area per la facilità di accesso, la buona esposizione e la ricchezza di acque, presenta una situazione geologica e una morfologia favorevoli alla frequentazione preistorica. Le valli mostrano infatti vari ordini di comodi terrazzi fluviali verso valle, mentre a monte si restringono in corrispondenza di rocce più compatte fino a formare forre su cui si affacciano ripari e grotte. Tra le centinaia di cavità che si aprono in questo territorio, in base alle ricerche sinora condotte solo 19 sembrano essere state frequentate in epoca pre-protostorica, secondo tipologie insediative differenti. A partire dal III millennio a.C. aumentano le testimonianze nei settori più interni, in aree sommitali, che riservano un vano un controllo visivo della pianura sottostante e ante e che a loro volta sono individuabili. Posizione motivata da ragioni che possono essere ricondotte ad attività di fienagione, di ricerca delle venatorie, pastorali, materie prime, di attività fusorie o ancora di nuovi rituali funerari.
Il paesaggio è un prodotto in continua evoluzione, un’entità dinamica caratterizzata dall’interazione tra fattori naturali ed antropici, avvenuti nel corso dei vari periodi storici. Un vero e proprio contenitore della memoria, individuale e soprattutto collettiva, che costituisce un’inconscia e irrazionale relazione con le proprie origini. Così, in una geografia della memoria, le antiche strutture archeologiche dei tumuli, dei castellieri e delle cortine aiutano a leggere il paesaggio friulano con occhi non ordinari, ma ricchi di consapevolezza.
Il Friuli è costellato da tumuli, tombe monumentali di personaggi
importanti appartenenti alle comunità dell’antica età del Bronzo (2500 - 1600 a.C.), castellieri, villaggi dell'età del Bronzo (2500-950 a.C.), protetti da alte e solide fortificazioni in terra o pietre e circondati da fossati e da cortine, siti che appartengono al sistema difensivo della comunità medievale.
La storia della città di Udine affonda le proprie radici in epoca protostorica. Il primo ad enunciarlo fu Achille Tellini, studioso dai molteplici interessi che, nell’illustrare la situazione geologico-agraria di Udine e dintorni nel 1900, ne rilevò le origini remote. Egli, incrociando l’osservazione delle carte antiche, le proprie osservazioni sul campo e le notizie del ritrovamento di reperti, ipotizzò una planimetria del castelliere che costituirà la base per gli studi di Lodovico Quarina e di tutti gli studiosi che gli succederanno.
Udine 1866–1938
Si laurea a Torino in Scienze Naturali e segue, per i successivi sette anni, il suo maestro di geologia presso l’ateneo romano. Svolge la sua attività scientifica in ambito paleontologico e geologico, collaborando, tra gli altri, al “Bollettino della Società Geologica Italiana” e alla “Rivista Italiana di Scienze Naturali”. Interrompe una sicura carriera universitaria per insegnare scienze naturali all’Istituto tecnico "A. Zanon" di Udine, dove fonda il Gabinetto di Storia Naturale con l’obiettivo di realizzarne un museo provinciale. Dopo una missione scientifica in Eritrea, si trasferisce nel 1908 a Bologna e comincia ad interessarsi di filologia, di linguistica, di folklore ladino e friulano, dedicandosi alla divulgazione dell’esperanto.
Sono stati numerosi gli interventi di sorveglianza archeologica condotti dalla competente Soprintendenza nel centro della città, i quali hanno permesso di individuare, al di sotto dei consistenti livelli medievali e rinascimentali, gli strati archeologici riferibili al Castelliere di Udine. I primi scavi condotti nel 1986-87, sulla sommità del colle del Castello, hanno messo in luce una fossa di scarico (struttura tipica all’interno dei castellieri) contenente più di 8000 frammenti ceramici, riferibili all’età di Bronzo Finale (XI sec a.C.). Nella chiesa di San Francesco sono invece state individuate fosse di cottura della ceramica e fosse di scarico. Di recente, all’interno di Palazzo Mantica, sede della Società Filologica Friulana, si è potuto ben osservare un tratto dell’aggere, il recinto di terra che fortificava l’abitato. Strutture archeologiche e reperti sono stati rinvenuti anche lungo via Mercatovecchio, in prossimità della Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone, Piazza Venerio e durante i lavori di restauro di Casa Cavazzini. L’analisi di questi dati, ancora in corso da parte dell’Università di Udine, ha permesso di riconoscere una frequentazione dell’area dal Bronzo Recente alla piena Età del Ferro (XIV – V sec. a.C.).
Già a partire dal Settecento, studiosi dagli interessi variegati avevano riconosciuto, in alcune ripetitive morfologie che costellavano il territorio, episodi di frequentazione antica. Ma è solo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento che con Achille Tellini e Giovanni Battista De Gasperi, prima, e Lodovico Quarina poi, i tumuli e i castellieri, importanti presenze del paesaggio friulano, vennero assimilate a quanto già osservato in regioni vicine e attribuite all’azione modificatrice dell’uomo preistorico.
Vernasso di San Pietro al Natisone 1867–1956
Perito agrimensore, assume incarichi come geometra presso il catasto. Si occupa di speleologia, geologia, toponomastica, di storia e di archeologia. Collabora con l’Accademia di Udine, la Società Alpina Friulana e con la Società Filologica Friulana. Per quest’ultima nel 1943 pubblica la ricerca dal titolo “Castellieri e tombe a tumulo in Provincia di Udine”.
In regione il modello insediativo dell’intera età del Bronzo (1700 - 950 a.C.) è rappresentato dai castellieri: villaggi difesi da potenti fortificazioni in terra o in pietra resi ancor più monumentali da alte palizzate e a loro volta cinti da fossati. In questo lungo periodo si sono alternati momenti di crisi, di riorganizzazione degli spazi, di nuove fondazioni o di rinforzi delle strutture già esistenti. Le ricerche dell’Università di Udine e della competente Soprintendenza hanno permesso di riscostruire le tecniche di elevazione dei terrapieni nei castellieri di Sedegliano e Savalons (Mereto di Tomba). Questi erano costruiti con la tecnica della “terra armata”, in altre parole con terra e ghiaia inseriti in cassoni di legno, alternati, per favorire la dispersione dell’acqua piovana, senza avere cedimenti della struttura. A Galleriano, l’ingresso attraverso la cinta fortificata era ad “asse spezzato”, vale a dire non con un accesso diretto al villaggio, ma con un percorso più articolato.
Rilievi di alcune tombe a tumulo. Manoscritto di Lodovico Quarina (Biblioteca Civica “V. Joppi”, Sezione Manoscritti e rari, f.p. 2605).
Le cortine nascono come sistema difensivo di una comunità, distinta dal castello, per moto spontaneo della comunità stessa, che si dota così di una sua autoregolazione. All’interno delle cortine si celebrano molto spesso le vicinie, assemblee popolari per mezzo delle quali si gestiscono le proprietà collettive. Incerta è l’origine di questi apprestamenti, che si è orientati a collocare in epoca medievale; dai documenti è possibile coglierne la capillare diffusione tra il XIV e XV secolo.
Mereto di Tomba 1891–1970
Laureato in giurisprudenza, esercita la professione di notaio a Udine e a Mereto di Tomba, dove diviene anche podestà. Socio dell’Accademia di Udine, della Deputazione di Storia Patria, dell’Ateneo Veneto e di altre istituzioni; poeta e saggista, dedica grande attenzione all’archeologia, soprattutto del suo paese, fornendo dati puntuali sui ritrovamenti che via via emergono dalla superficie dei campi e che poi vengono donati ai Civici Musei di Udine, dove il gemello di Pietro, Carlo, opera in qualità di direttore dal 1932 al 1958.
Ben poche cortine hanno mantenuto i caratteri originari: già nel corso del XVI secolo, infatti, sono state abbandonate o trasformate. Si sono conservate, al pari dei tumuli e dei castellieri, nei toponimi, nella loro conformazione morfologica e architettonica e nella presenza, all’interno dell’insediamento, della struttura della chiesa. Sappiamo dalle indagini archeologiche condotte presso la Cortina di Rivolto nel 2000 della presenza, in quel caso, del fossato e di due aggeri. I due terrapieni, uno più esterno e uno più interno, erano a loro volta separati da un fosso con dimensioni modeste rispetto a quello esterno.
Le morfologie emergenti riferibili alla Preistoria e al Medioevo informano la memoria storica collettiva, marcando in modo identitario il territorio friulano. La loro tutela e conservazione offre l’occasione per valorizzare aree quasi mai note al grande pubblico, favorendo una mobilità lenta dedicata alla conoscenza.
Il mare nel corso della storia umana ha avuto spesso il ruolo di unire e non di dividere i popoli.
La mostra “Adriatico senza confini” è un’importante occasione per mostrare le principali acquisizioni di decenni di indagini archeologiche nell’Adriatico orientale, ma anche le novità delle ultime ricerche svolte tra Italia, Slovenia e Croazia. Un momento di riflessione sulle radici culturali del nostro territorio e sull'identità culturale e spirituale dell'Adriatico orientale.
Come in tutta Europa, l'agricoltura si diffonde nell'Adriatico orientale molti millenni dopo la sua origine in Asia occidentale. Capre e pecore compaiono nel 6000 a.C. e così pure, anche se non contemporaneamente, accade per i cereali e l'orzo. Questi elementi saranno accompagnati da innovazioni tecnologiche, quali ad esempio la ceramica e le asce in pietra levigata. A giudicare dall'improvvisa e radicale trasformazione nelle strategie di sussistenza e nel materiale culturale, la migrazione giocò un ruolo decisamente importante in questo cambiamento, anche se tale processo vedrà un'attiva partecipazione dei gruppi indigeni di cacciatori-raccoglitori che ne determineranno le caratteristiche sempre diverse da luogo a luogo.
Nel 5600 a.C. lo stile ceramico delle comunità neolitiche cambia. Alla ceramica decorata ad impressioni succede in Dalmazia uno stile molto più elaborato, articolato e variabile, conosciuto con il nome di Danilo, Sembra che lo stile non abbia avuto origine in un sol luogo, ma si sia diffuso contemporaneamente nell'Adriatico orientale anche se in modo poco omogeneo: scarsamente definito nella Dalmazia meridionale, diverso nella parte settentrionale di questo territorio, dove è stato ribattezzato "Vlaška". Contatti ad ampio raggio, forse indicatori di scambi marittimi, sono documentati dalla presenza di manufatti in vetro vulcanico, l'ossidiana, la cui provenienza è per lo più riconducibile all'isola di Lipari (Sicilia nord-occidentale).
Nel 5600 a.C. il Friuli vede la comparsa di numerosi piccoli villaggi e conosce episodi di estesa frequentazione. Forme e decorazioni di alcuni reperti ceramici e alcuni elementi dell’industria litica mostrano sia contatti con l’area padana, in particolare con la Cultura di Fiorano, sia con l’Adriatico orientale. Lievemente differente la situazione sul Carso triestino, caratterizzato dalla presenza di numerose grotte e rari ripari sottoroccia, utilizzati probabilmente come ricoveri temporanei, quali luoghi di sosta dei pastori e di stabulazione delle loro greggi. I materiali ceramici rappresentano un aspetto impoverito dello stile Danilo dell’Adriatico orientale, noto con il nome di “Gruppo di Vlaška” o dei “Vasi a Coppa”.
Il 4900 a.C. è contrassegnato da un altro cambiamento nello stile ceramico, conosciuto sotto il nome di Hvar, che ha contraddistinto in modo diverso l’Adriatico orientale. Le decorazioni si limitano a fasce di motivi geometrici incisi e a volte dipinti e progressivamente i recipienti diventano sempre meno ornati. Lo stile di Hvar deve il suo nome ai materiali archeologici rinvenuti nella grotta Grapčeva sull’isola di Lesina (Hvar) in Dalmazia centrale, ma alcune datazioni al radiocarbonio fanno supporre che questo stile abbia avuto invece origine nel cuore del territorio di Danilo. Forme e decorazioni dei recipienti compaiono anche nelle zone a nord-ovest di questo territorio, spingendosi fino al Friuli Venezia Giulia.
Gli oggetti di culto possono essere considerati la testimonianza di un sistema ormai perduto di comunicazione, sono il rifl esso nella cultura materiale di credenze e di ideologie: una forma non verbale di linguaggio. Sebbene sia diffi cile determinare in modo certo il significato che questi simboli avevano per chi li ha creati, la loro diffusa presenza nell’Adriatico orientale testimonia radici culturali comuni.